giovedì 29 novembre 2012

Nasrin Sotoudeh e le altre in sciopero della fame per i diritti, ma a Evin si continua a morire

...................................................................................... Ilaria Romano ..................................................................................... Il 26 ottobre scorso ha ricevuto il premio Sacharov 2012, istituito nel 1998 dal Parlamento Europeo per celebrare coloro che dedicano la vita alla difesa dei diritti umani e alla libertà di pensiero. Non lo ha ritirato, Nasrin Sotoudeh, perché è in carcere da due anni e due mesi, a Teheran, condannata per atti contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il regime. Nasrin è un’avvocatessa che ha difeso molti degli attivisti della “rivoluzione verde” del 2009, oltre che il Premio Nobel Shirin Ebadi e i tanti minorenni che ogni anno finiscono nelle carceri iraniane. Dal 17 ottobre è in sciopero della fame per protestare contro il divieto che le viene imposto, ormai da più di tre mesi, di incontrare i parenti, compresi i suoi due figli, senza la barriera del vetro divisorio, e di fare telefonate alla famiglia. Nel gennaio del 2011 è stata condannata a 11 anni di prigione, poi ridotti a sei, e ad altri vent’anni di divieto a lasciare il paese, una volta in libertà. Ha deciso di rifiutare il cibo perché le vessazioni delle autorità iraniane avevano cominciato a interessare i suoi cari con insistenza. L’ultimo episodio, il diniego alla figlia dodicenne del permesso di viaggiare all’estero, probabilmente per impedire che ritirasse il premio per lei. Nel carcere di Evin ci sono altre donne, detenute politiche e di coscienza, che hanno seguito il suo esempio, e che fra la fine di ottobre e i primi di novembre hanno fatto uno sciopero della fame, al momento sospeso, contro i trattamenti degradanti che devono subire. Amnesty International ha denunciato alcuni di questi casi e ha lanciato un appello alle autorità iraniane affinché indaghi sulle denunce di maltrattamenti in prigione. Le attiviste oltre a subire discriminazioni che ne ostacolano il ruolo, vengono, inoltre, stigmatizzazione dalla società perché considerate un pericolo per la religione, l'onore o la cultura. In carcere la cauzione per il rilascio è spesso molto alta, tanto che le famiglie non riescono a pagarla e quindi cominciano a scontare ben prima della condanna definitiva. Bahareh Hedayat è un’attivista del movimento studentesco ed esponente della Campagna “un milione di firme”, nata per combattere contro le discriminazioni delle donne nelle leggi iraniane. Ora, anche lei a Evin, sconta una pena di dieci anni per i reati di offesa al presidente, alla Guida Suprema e collusione per commettere crimini contro la sicurezza nazionale. E’ stata arrestata per la quarta volta il 31 dicembre del 2009, portata in carcere e messa in isolamento. Zhila bani Ya’ghoub è una giornalista e attivista per i diritti delle donne, che dal 2 settembre sta scontando una condanna ad un anno per propaganda contro il sistema e offesa al presidente, per gli articoli scritti a ridosso della rielezione di Ahmadinejad. Al termine della pena, dovrà scontare la sospensione della professione per trent’anni. Anche altre giornaliste, come Shiva Nazar Ahari e Masha Amrabadi scontano pene detentive per il loro impegno a favore dei diritti umani. Con loro nel recente sciopero della fame ad Evin c’era anche Zhila Karamzadeh Makvandi, attivista del Movimento delle Madri di Parco Laleh, organizzazione considerata illegale dal Governo che si batte contro le sparizioni degli attivisti, gli arresti arbitrari, le torture e le morti in carcere. “Giornalisti e difensori dei diritti umani non dovrebbero mai essere in carcere – ha dichiarato Shirin Ebadi sul caso di Nasrin e delle altre attiviste – e soprattutto le prevaricazioni sui figli dei detenuti, o la negazione delle cure mediche in carcere fanno solo apparire l’Iran un paese ancora peggiore agli occhi del mondo”. La Premio Nobel per la Pace aveva lanciato un appello già nel giugno scorso insieme alla Federazione Internazionale per i Diritti Umani e a Reporter Senza Frontiere per i prigionieri di coscienza in Iran. Ma nel paese gli arresti e le condanne per reati d’opinione continuano ad essere all’ordine del giorno. E il carcere di Evin, non a caso chiamato anche Evin University per l’alto numero di detenuti “letterati” fra docenti, studenti, avvocati e professionisti dell’informazione, non ha mai smesso di far parlare di sé per le condizioni di detenzione e le notizie che arrivano anche all’estero grazie al lavoro degli attivisti iraniani. Il 10 novembre, nella prigione di Teheran è morto un blogger, Sattar Beheshti, e alcuni detenuti hanno testimoniato a Human Rights Whatch di aver assistito al suo brutale pestaggio. Il 35enne era stato fermato dopo aver scritto e messo on line una lettera aperta all’ayatollah Khameney, in cui criticava la mancanza di libertà nel regime iraniano. Ora il capo della Giustizia Sadeq Larijani ha ordinato un’inchiesta sul caso, ma nel frattempo la famiglia ha smesso di rilasciare dichiarazioni alla stampa, come ha fatto sapere HRW, che teme sia stata intimidita. Nel frattempo grazie allo sciopero della fame delle donne, le guardie carcerarie della sezione femminile sono state trasferite in un’altra prigione, con la promessa alle detenute di migliorare le loro condizioni. Una goccia nel mare, anche perché quelle stesse prigioniere sono state ora condannate pure per sciopero della fame: altre tre settimane di isolamento senza diritti di visita. Pena sospesa, ma non si sa fino a quando.